Quello che resta, alla fine

Ogni tanto ricapito qui, sapete?, e seleziono un articolo a caso dalla barra di destra: un anno e un mese a caso, giusto per controllare cosa avessi scritto in quel periodo e se mi ricordi qualcos’altro. La sensazione è, propriamente, quella che si chiama nostalgia, ossia il “dolore del ritorno”. Ad ogni viaggio verso il passato, vengo assalito da una serie di rimpianti, di cose che avrei potuto, di cose che avrei voluto… Ogni cosa scritta è una specie di piccolo quadretto sfocato che non assomiglia più tanto alle cose che avevo in mente di dire. Il dolore è tutto lì: nella constatazione che molte e molte energie sono andate e, secondo le leggi della termodinamica, non c’è modo di riportarle indietro.

Adesso sto scrivendo altre canzoni, suono ancora e scrivo ancora e, per il solo fatto che le cose non vengano puntualmente documentate su un social, non è detto che non accadano. In quest’ultimo anno, per esempio, vi avrei scritto di questa graduale degenerazione a cui abbiamo tutti assistito: violenza verbale e risse da bar che, un tempo, mi avrebbero offerto moltissimi spunti per scrivere nuovi post. Ora, invece, mi danno un po’ di disgusto: se avessi dovuto documentare ogni piccolo spostamento verso il basso del livello del dibattito pubblico, ogni piccola forzatura della nostra moralità e della nostra umanità, avrei scritto molto e avrei, allo stesso tempo, sofferto molto, constatando che ciò che si scrive non sposta di una virgola lo sdegno e il disgusto di chi già lo prova e non provoca il minimo ripensamento in chi è convinto di essere nel giusto. Ecco: una caratteristica di questi tempi è l’irrigidimento. Nessun passo indietro, da parte di nessuno. Alla fine, avete sempre tutti ragione e questi sono tempi troppo difficili per la mia congenita insicurezza.

Tuttavia, il giorno della memoria è legato anche a questo, al dovere di esserci e di dire qualcosa, per quanto possa suonare retorico e scontato. La mia idea iniziale era quella di fare una piccola pubblicazione di tutti i post che avevano a che fare con il giorno della memoria e con il tema del ricordo. Ho cominciato a selezionarli – con un po’ di nostalgia – ripercorrendo tutto l’ultimo decennio. Ho riletto cose scritte anni fa e le ho trovate tutte molto simili. Volevo contestualizzarle e spiegare perché avevo scritto quegli articoli e mi sono reso conto che gli episodi ritornano uguali a distanza di tempo: nel 2014, alcuni nazisti avevano inviato teste di maiale ad una giornalista di famiglia ebraica; il 24 gennaio 2020, a Mondovì, altri buontemponi hanno scritto juden hier sulla porta di una famiglia di ebrei. Ripetitività? Alla fine tutto rimane uguale? Anche questo è uno degli inganni della memoria e, forse, avrei scritto anche qualche anno fa che eravamo inevitabilmente peggiorati. Nel frattempo però siamo diventati più insensibili ad una certa beceraggine: i fascisti possono definirsi tali senza finire in galera, possono protestare se viene loro tolto il diritto di esprimere le loro opinioni sui social, dimostrando – nonostante siano dei nostalgici pure loro – di avere una memoria decisamente selettiva su certi aspetti della dittatura. Il fascismo in generale (o, se volete, un certo cinismo sociale) è diventato uno dei modi di affrontare la contemporaneità: ci sono persone che pensano e dicono cose fasciste ma non le percepiscono come tali. Non gridate “al lupo, al lupo” senza motivo – ci intimano dalla tv: il lupo, in effetti, siamo noi e la nostra stolida volontà di difendere lo stato delle cose. Io però sono diventato più vecchio e, come potete intuire dalle righe precedenti, più intollerante nei confronti di questa continua messa in discussione dei nostri valori fondamentali: non sopporto i lupi, non credo che siano una conseguenza inevitabile dei tempi e non credo nemmeno che sia auspicabile usarli per difendere la mia casetta.

Qui di seguito allora vi metto una piccola selezione di cose che ho già scritto e che, magari, rilette, possono chiarire meglio quello che intendo con nostalgia e inganno della memoria. Soffriamo probabilmente proprio perché abbiamo la sensazione di ritornare sempre nei soliti luoghi comuni: 

La scoria infinita (2009)                                              Memoria ram(inga) (2011)

Si stava meglio (2013)                                                  La memoria del Furby (2014)

La diga della memoria (2014)                                    All by my selfie (2015)

Memorie a perdere (2016)                                          Resistenza & pazienza (2017)

A questo giorno io sono sempre stato molto affezionato. L’ho scritto tante volte: era il compleanno di mia nonna e quest’anno sarà la prima volta, per me, in cui lei non ci sarà. Se n’è andata in ottobre, talmente sazia di giorni che non mangiava quasi più e mi parlava con gli occhi. Negli ultimi tempi si sforzava di bisbigliarmi delle cose ma io non la capivo. C’era stato un weekend in cui avevo paura che morisse: ero andato a trovarla al sabato e poi ero tornato il giorno dopo con le mie figlie. Mi aveva guardato e poi mi aveva bisbigliato: “sto male così vieni a trovarmi più spesso”. Io avevo sorriso e anche lei: ci teniamo più strette le cose proprio quando stiamo per perderle.

Adesso ho una foto di mia nonna appesa sopra alla scrivania. Non credo che le assomigli tanto: è mia nonna a 91 anni ma io me la ricordo quando ne aveva 60 o 70. Me la ricordo che era forte e si alzava alle 5 della mattina e preparava le lasagne e il caffè quando arrivavano all’alba i nostri cugini dalla Svizzera. Me la ricordo che trasporta carrette piene d’erba o dà da mangiare ai conigli e alle galline. Tutta mia nonna non ci sta in una fotografia e questo credo che valga per ogni tessera della nostra memoria.

Forse il vero inganno della memoria, e del giorno della memoria, è proprio questo: affidare i nostri ricordi a dei piccoli quadretti, appenderli al muro e non pensarci più, finché sfumeranno nel tempo i lineamenti che volevamo ricordare. Si impolvereranno, prima o poi, e qualcuno proporrà di staccarli e tutto il tempo non sarà servito a niente. Forse dovremo pensare un po’ a quello che c’è dietro alle fotografie, alle persone reali che si sono incamminate per un destino assurdo, agli altrettanto assurdi ordini che hanno ridotto a zero la nostra umanità. Persone, persone vere che magari qualcuno ha tenuto appese al muro finché le foto non sono sbiadite.

Forse dei ricordi di tutti, compresi i miei, c’è solo una cosa che resta davvero.

Quello che resta, alla fine, sarà tutto l’amore consumato: quello che abbiamo ricevuto, quello che abbiamo impiegato per fare le cose, sarà tutto il dolore dietro una fotografia o qualche riga scritta in fretta, tutta la frustrazione che sta dentro una canzone. Sarà – ancora una volta – mia nonna che mi dice di avere pazienza e prendere le cose per l’amor di Dio. Sarà il mio diventare vecchio pensando a tutte le persone che mi hanno aiutato a crescere in tutto questo tempo.

Il ritorno ai ricordi allora non sarà così doloroso. Sarà ritrovarsi in quelle piccole zone luminose dove abbiamo deciso cosa diventare: sarà prendere un po’ di coraggio – anche quest’anno, come tutti gli anni – per fare altre cose, cambiare e decidere di guardare avanti.

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Titoli di coda

Al cinema ci sono due categorie di persone che restano in sala fino alla fine dei titoli di coda: i veri cinefili e quelli che si aspettano le scene aggiuntive alla fine di tutto. Forse i primi schifano i secondi, ché il mezzuccio di aggiungere la scena alla fine è una cosa che puoi trovare nei film Disney o Pixar o Marvel e Makhmalbaf, per dirne uno, una roba del genere non l’avrebbe mai fatta; forse i secondi tollerano i primi, che pure si ostinano a commentare ogni voce dell’interminabile serpentone di voci che si snoda sullo schermo. Forse tutte e due le categorie sono solo un po’ affezionate al film che se ne va e faticano ad alzarsi dalla poltrona. Io credo di essere un po’ a cavallo fra le due categorie: a volte si resta fino alla fine solo così, per vedere l’effetto che fa.

Con quest’ultimo post chiudo l’esperienza di scrittura del blog dei Kabaré Voltaire: oggi si compie il nono anno dall’apertura del blog e questo che state leggendo è il duecentesimo articolo. C’è gente, mi diceva giustamente Giulia non tanto tempo fa, che con molto meno è diventata pubblicista.

A me però, quando ho cominciato a scrivere queste cose, interessava soprattutto l’idea di raccontare: che cosa, di preciso, non lo so. Tutto questo però è stato un lungo racconto che ha attraversato diversi periodi della mia (e della vostra) vita. A volte alcuni di voi, incontrandomi, mi hanno chiesto il motivo di questo o quello, mi hanno espresso solidarietà, mi hanno dato pacche sulle spalle, alcuni si sono preoccupati delle cose che ho scritto… Ecco: state tutti tranquilli. Un racconto è un racconto ed è una cosa molto diversa dalla vita: il sangue è ketchup, questa non è una pipa, e chiunque, quando scrive di sé, mente o inventa delle cose.

In questo senso, io rileggo molto di quello che ho scritto con l’imbarazzo che si ha quando riguardi una vecchia foto e ti vedi vestito o pettinato come un cretino. La statistica però ci dice che, se guardando le tue vecchie foto hai sempre quella sensazione, probabilmente ti pettini e vesti sempre come un cretino. Non so che conclusioni potrete trarre voi da tutto questo. Io, le mie, le ho tratte. Scrivere è sicuramente anche un modo di conoscersi e, se adesso chiudo quest’esperienza, è perché credo che mi abbia dato molte delle cose che cercavo e che forse, adesso, cercherò altrove, con più consapevolezza e altri mezzi.

Adesso, come in tutti i titoli di coda che si rispettino, diamo un po’ di cifre. Il blog ha avuto una media di 3983 letture annue che, diviso per il numero degli articoli, fa circa 165 letture a post pubblicato. L’anno di maggiori letture è stato il 2012, l’anno con meno letture il 2016. Il mese che ha generato le maggiori letture è stato l’aprile 2015 con 1200 visualizzazioni, il mese “meno letto” è stato settembre 2016 con 142. Su internet queste cifre non sono niente – nel senso che un’amica di mia moglie, che pubblica foto delle sue nuove scarpe inquadrandosi dal polpaccio in giù, ha circa il doppio delle visualizzazioni e una cifra di “mi piace” pari a quella che io accumulo in un anno – ma evidenzia un pubblico fedele che, zitto zitto & solidale, non solo mi ha seguito (un nuovo articolo viene letto nei giorni della pubblicazione sempre dai soliti 50 – 60 affezionati) ma si è riletto più volte degli articoli o, a quanto dice la funzione “statistiche” del blog, si è andato a recuperare quelli vecchi. Bah! Misteri della rete… Così come misteriosi sono i lettori che hanno (suppongo casualmente) visualizzato i miei articoli dai quattro angoli del globo: le 3 visualizzazioni dalla Finlandia ad esempio, quello dal Benin o i due dalla Corea del Sud, e poi Bolivia, Cile, Uruguay, Cambogia, Thailandia… A riprova che internet – per chi lo sapesse usare – potrebbe costituire davvero un modo per farsi conoscere potenzialmente ovunque. Non è il mio caso, comunque.

Tuttavia, ora che chiudo baracca & burattini, devo ringraziare tutti voi fedelissimi: sappiate che, negli ultimi tempi, ho scritto solo per voi e che, se non ci fossero delle leggi sulla privacy internettiana, verrei a ringraziarvi di persona. Sono sicuro di farcela: l’amica di mia moglie avrebbe decisamente più problemi (su quei tacchi poi…).

Ribadisco allora i miei ringraziamenti casuali: ad Alessandro (allsho) che è stato il primo follower del blog, all’Elios che è stata la prima iscritta via mail, a tutti i vari bloggers con cui sono entrato in contatto e che mi hanno scritto oltre a leggermi (cito solo @econstile, @vpetrosino, @waltzno2, @inherskinblog, @piccolipensieripigri e @bikepackingfamily per motivi affettivi…), alla Giulia con cui ho parlato di costanza nella scrittura, alla Lara che mi diceva che la gente non commentava i miei post perché non c’era niente da aggiungere, al Meru che mi ha scritto di non chiudere, alla mia mamma che ha cominciato a leggermi solo di recente e a mia nonna che ha sempre compiuto gli anni insieme al blog (auguri!).

Oltre a loro dovrei ringraziare anche Luca e la Chiara (che ha appeso un post nel suo asilo) per tante cose, Gianfrancone che ho sempre ringraziato meno del dovuto, il Bombatomica che ha pubblicato l’unico post muto (il 14 luglio 2009), tutti i kabaretti passati e venturi (Marco, Pippo, ancora Luca, Violina, Ema, Uge e Marcello) e il solito Mirco che è sempre stato l’altra metà della redazione e, oltre a pubblicare materialmente e a completare con le immagini gli articoli, ha continuato a darmi spunti di scrittura fino a lunedì scorso.

Dovrei ringraziare i soliti quattro che mi mettono “mi piace” su FB: vi sono molto affezionato, non credete. Una volta Stefano – che mi dà del lei – mi ha detto: “io sono un suo grande fan ma mai come sua moglie che mette mi piace a tutti gli articoli”. Come a dire che, insomma, c’è un limite anche al fanatismo e mica puoi dire che ti piace tutto tutte le volte… Comunque, forse è giusto che io termini proprio con lei, che si è letta tutte queste cose prima della pubblicazione (dicendomi sempre “va bene, dai”, anche se dalla sua faccia capivo quali articoli avrebbero funzionato e quali no) e ha sempre messo un fideistico “mi piace” in calce alla pubblicazione. Si dice che dietro ad un grande uomo ci sia una grande donna ma a volte, se hai culo, ci sono grandi donne anche dietro a uomini qualunque: in quel caso ti fanno sentire grande anche se sei un pirla che suona in quattro locali e scrive cose su internet per i suoi venti amici.

E’ stato un bel viaggio e sono contento che l’abbiate fatto insieme a me: grazie a tutti!

 

Ah! Per quelli che aspettavano l’ultima scena… Mi prenderò una piccola pausa e poi comincerò ad usare questa pagina per pubblicare delle nuove canzoni. Ce ne sono da parte un bel po’ e, forse, se ci metto un po’ della costanza che ho messo finora nella scrittura…

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La storia dell’artista

C’è questa storia dell’artista per la quale ti vengono concesse un po’ di stranezze, basta che qualcuno dica “sai, è un artista…”, con aria di vago compatimento, e parte un coro di “ah be’, sì be’” pronto a giustificare qualsiasi cosa.

Puoi dare in escandescenza in pubblico, dire “basta, me ne vado!” (una delle battute più famose del repertorio dell’artista), oppure richiedere prima di un concerto zenzero e litchees pena l’annullamento della performance (questa non funziona molto in verità, perlomeno dove suono di solito io…).

Comunque, io di questa storia dell’artista non ho mai approfittato molto: se mi dicono di arrivare in un posto alle 18:30, più o meno a quell’ora sono lì e questo, mi dicono, non rientra fra le prerogative dell’artista. A volte mi sono ritrovato ad affrontare problemi tecnici, a volte addirittura a proporre soluzioni quando non a risolverli. E questo non rientra fra le prerogative dell’artista, che è perlopiù tutto assorbito dalla sua arte. A volte – e quest’ultima cosa sia detta con mia somma vergogna – mi sono adattato all’esigenze altrui senza battere ciglio, senza neanche una mezza scenata o una piccola grana: “Come dici? Manca questo, questo e quest’altro?… Ci arrangeremo!”.

Mi arrangerò: un artista non dice mai una cosa del genere. Certo, i gestori dei locali e i fonici – che molto spesso sono, loro sì, degli artisti e ti dicono di arrivare alle 18:30 ma prima delle 19:15 non si fanno vedere – mi sorridevano ma, dentro di loro, avevano già capito.

Non c’è niente da fare: non sono un artista. Ci ho messo un po’ per capirlo anch’io ma gli indizi c’erano tutti. Col tempo ho capito di essere qualcos’altro, per esempio un artigiano. Mica si deve essere tutti per forza artisti. Anche i prodotti dell’artigiano non sono male, qualcuno è fatto proprio a regola d’arte: pane fresco, utensili da cucina, poltrone e sofà. Mi piace l’idea che i prodotti dell’artigiano uno li abbia sottomano tutti i giorni, senza accorgersene tanto: una sedia comoda quando sei stanco, il profumo del pane quando hai fame.

Forse anche le mie canzoni sono così; sicuramente lo sono questi post, che mi ostino a scrivere quindicinalmente.

Una volta, per scrivere, mi sedevo al computer e, come ogni artista che si rispetti, aspettavo che arrivasse l’ispirazione. Aspettavo e aspettavo e niente. Finché un giorno finalmente… niente neanche quel giorno. Allora ho capito che la modalità artistica non funziona con me ed era meglio sfornare sedie o pagnotte. L’obbligo di sfornare, il senso del dovere, sono cose che, alla lunga, mi sono risultate più congeniali, nonostante tutti quelli che mi stanno attorno, a partire da mia moglie, debbano sopportare la mia ansia nel giorno della pubblicazione.

“Ma se questa volta salti, cosa cambia?” – mi dice lei. In effetti niente: un artista farebbe così. Invece io mi ostino a scrivere il 10 e il 27: a volte esce tutto bruciacchiato, a volte non sa di niente, a volte è un po’ crudo dentro. E’ un appuntamento, un modo per salutarsi, un’abitudine. Io ci sono, voi ci siete.

Certo, non è arte, non lo è mai stata, ma pazienza.

Forse è pane e c’è anche gente che, anche se poi lo butta via dopo 24 ore, si ostina a comprare il pane tutti i giorni.

Adesso non mi vedete, ma sono qui con le mani sui fianchi, il grembiule tutto infarinato e lo sguardo soddisfatto: il prossimo sarà l’ultimo post del blog.

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Sogno di Natale

Mi ricordo che era il 24 dicembre e io ero in fila da Feltrinelli. La fila si snodava per decine e decine di metri, passando dai saggi ai bestseller, fra gli strumenti musicali a basso prezzo giù giù fino alle serie televisive. In fondo, penultimo, c’ero io. Stringevo fra le mani un cd di Ed Sheeran per mia figlia. Davanti a me una signora, con lo stesso cd fra le mani, mi guarda sorridente e mi dice: “Siamo stati davvero fortunati: li hanno consegnati stamattina. E’ una settimana che cerco questo disco dappertuttto…”

Già… e io cosa dovrei dire? Mi è venuto in mente di comprare “questo disco” (che originalità!) e mi sono ritrovato in questo serpentone umano smisurato: tutti stringono fra le mani un cd, uno o più libri (in un paese in cui si leggono mediamente 1,2 libri all’anno a testa!), un ukulele… e io qui, in fondo, stremato dagli acquisti, con la prospettiva di passare buona parte della giornata in fila.

Dopo qualche ora, qualcuno deve avere acceso un piccolo fuocherello con dei fascicoletti patinati dell’ultimo Star Wars e io mi sono accoccolato a terra vicino al falò e mi sono addormentato.

Sono stato svegliato da un suono di zampogne.

Ho aperto gli occhi e, ritto sopra di me, ho visto un pastore che teneva per le zampe una pecora sulle spalle. “Ma!…” – ho fatto per alzarmi di scatto e lui – “Stai giù! Stai giù!” – mi ha gridato. Mi sono accorto in quel momento di essere sdraiato su un morbido tappeto di muschio. “Cosa sta succedendo?” – ho chiesto, e il pastore: “Siamo tutti in fila per il presepe vivente del Natale… Io sto portando questa pecora alla Cassa per festeggiare. Di fianco c’è il pastore vegano che porta le formaggelle, là c’è quello coi pesci… Siamo tutti in corteo verso la Grande Cassa! La senti questa musica, come di campanellini, di sottofondo? E’ il grande lettore ottico dei codici a barre dei prodotti…blip! blip! E’ così tutti gli anni, ogni anno uguale all’altro, e ognuno di noi interpreta sempre lo stesso personaggio in questa rappresentazione.”

“E io… io cosa c’entro?!”. “Tu – mi ha risposto il pastore – sei il ‘Benino’… Il Benino è quel personaggio, immancabile in ogni presepe, che dorme vicino al fuoco. Rappresenti il nuovo anno e i buoni propositi per il nuovo anno…”

“Ma… ma questa cosa non ha senso!” – ho esclamato – “non posso essere una statua del presepio! Devo fare un sacco di cose… devo correre… devo…” “Ahahaha!” – il pastore si è messo a ridere – “ancora non hai capito? Noi siamo sempre statuine del presepio. Noi facciamo sempre le stesse cose. Solo che a Natale è più evidente… La gente crede che il Natale sia ripetitivo: si ritrova negli stessi negozi, con la stessa ansia e si lamenta… In realtà la gente vive così tutti gli anni, tutti i mesi, tutti i giorni: Natale è un’occasione per rendersene conto e, magari, provare a cambiare. Ma nessuno di noi cambia. Siamo statuine che aspettano che il cambiamento scenda, per miracolo, dal cielo…”

“No! Io posso cambiare! L’anno prossimo sarà tutto diverso: mi organizzerò prima, arriverò a Natale senza ansia, avrò tempo per le cose veramente importanti… chiamerò tutti gli amici, tutti i parenti…”

“E’ normale che tu dica così… Tu sei il ‘Benino’: hai sempre la speranza, o l’illusione, che le cose l’anno prossimo cambieranno magicamente… Ma guarda, guarda bene laggiù: insieme al ‘Benino’, in ogni presepe che si rispetti, non può mancare l’’Armenzio’. E’ lo spirito dell’anno vecchio che se ne va…”

E a quel punto, aguzzando la vista, ho visto questo signore, ormai davanti alla cassa, in tutto e per tutto identico a me, vestito come me, ma molto più stanco, con la barba più lunga e gli occhi affaticati. Ero io, al termine dei miei acquisti, dei miei buoni propositi, in uno qualsiasi degli anni a venire: ogni anno nuovo percorre la strada di quello vecchio, fino a che non avrò il coraggio di uscire dal binario, di fare qualcosa di diverso, di inaspettato. Cosa mi costa, in fondo, cambiare davvero?

“Sono 15 euro” – mi hanno detto alla Cassa: e io non ho capito se era finito il sogno o se, più semplicemente, la processione mi aveva portato al termine della coda.

“Ci muoviamo?!” – dietro di me un ragazzo con un giaccone di montone e la sua ragazza con una di quelle robe pelose addosso che sembra sia fuggita dalla Barbagia.

“Sì, sì… scusate” – mi accorgo, mentre tiro fuori i soldi, di essere tutto sudato: non si può rimanere così a lungo dentro ai negozi con la giacca, la sciarpa… sto andando a fuoco.

“Cos’ha?” – mi chiede il ragazzo della cassa – “Si sente bene?”

E alla fine ti dicono che è Natale tutti i giorni: basta aprire gli occhi e guardarsi intorno.

“Sì… io… sto… sì grazie!… Mi sento… Benino!”

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Le lucine

Forse cè davvero troppo buio in questi giorni. Le giornate si accorciano: la luce si fa avara, amara lanima che cova i pensieri più neri.


Non è un caso che questi siano i giorni della depressione, del male oscuro che si abbatte sugli scandinavi e su quanti stanno troppo lontano dal giorno.


Anchio non sono messo benissimo, soprattutto leggendo le notizie di questi giorni di fascisti e neofascisti e neocoglioni vari che si aggirano per le nostre strade. Non che ignorassi la loro presenza per carità ché basta parlare con un adolescente (non con tutti, per fortuna...) per sentirsi ripetere la storiella dei treni in orario, dellordine e della disciplina e dellerrore fatale lunico, in mezzo a tante opere buone di allearsi col folle germanico... La vulgata consolatoria del fascismo buono (da distinguersi dalla sua fase terminale, che parte dal 38 circa in poi) ignora ovviamente la morte di Matteotti e di Gobetti fra i tanti o le leggi contro la libertà di stampa e di associazione, e non fa che aumentare la gastrite a chi, come me, è costretto ad ascoltare queste favole con la tolleranza e lo spirito critico appresi, mio malgrado, in vari anni di ascolto delle opinioni altrui.


Forse cè davvero troppo buio, penso, nelle nostre coscienze o semplicemente nella nostra cultura, in quello che siamo o non siamo riusciti a trasmettere a questi giovanottoni rasati e vestiti di nero. Quel nero è veramente il segnale di tutto quanto non riescono a vedere nelloscurità della loro ideologia.


Ecco: pensavo a queste cose e a come la luce si accorciasse gradualmente in questo periodo, in sintonia con il mio ottimismo. Il culmine del buio, ci insegna la saggezza popolare, dovrebbe essere proprio in questi giorni, per raggiungere il suo massimo il 13 dicembre.


Non è un caso che quella sia la notte di Santa Lucia. Mia moglie e le mie figlie stanno addobbando la casa e il balcone con lunghe file di lucine intermittenti. Le lucine mi dicono loro mettono allegria, sono un antidoto al buio di questo periodo.


Già, da sempre accendiamo lucine nel periodo più buio dellanno: da Santa Lucia, che è la luce che si accende quando il buio è più profondo, le giornate si allungheranno impercettibilmente fino alla primavera.


Chissà, mi dicevo, se questa cosa può funzionare anche contro altri tipi di buio e di oscurità; chissà se ognuno di noi può riuscire ad essere una piccola lucina nella notte che illumini, anche solo per un momento, la violenza e il male mostrandoli per quello che sono.


Nel buio, mi hanno sempre fatto paura un sacco di cose che poi, di giorno, non erano certo da temere.


Credo che chiamare le cose con il loro nome, dire che il fascismo è un crimine e criminali quelli che lo vogliono resuscitare, dire che la violenza è sempre sbagliata, ribadire che non esistono esseri umani superiori agli altri, sia già un piccolo modo di fare luce, una piccola testimonianza che, magari, può solo fare un piccolo alone attorno a noi.


Forse, da solo, non posso fare granché: ma io, altri che la pensano come me, le persone di buon senso, le persone che rifiutano la violenza, tutti possiamo diventare una file di lucine in fondo al tunnel delloscurità.

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Nuovo freddo

Dalle mie parti si dice “cercarsi il freddo per il letto” per indicare l’atteggiamento di complicarsi inutilmente la vita. Dovrebbe indicare l’azione – assolutamente insensata in una cultura contadina e priva di riscaldamento –  di mettersi nella parte fredda del proprio giaciglio quando si potrebbe stare tranquillamente nella parte che abbiamo già riscaldato (o che, nei letti di una volta, veniva precedentemente riscaldata).

Tutto questo per dire che abbiamo fatto un nuovo spettacolo teatrale e mia nonna, alla quale raccontavo ieri la cosa, mi ha detto sorridendo che “mi cerco sempre il freddo per il letto”.

In effetti, fra i malumori di chi non ne sapeva nulla, di chi non è riuscito a venire o di chi, più semplicemente, era di malumore per i fatti suoi, abbiamo portato in scena il numero zero del nostro nuovo spettacolo “Icaro…vola basso!” – sette miti classici raccontati e traditi ideato e realizzato in collaborazione con Francesco Camattini (a dir la verità, con un sacco di materiale suo e qualcosa di nostro…). Trattasi – si diceva – di un numero zero e non di una ‘prima’ vera e propria, dal momento che il pubblico (da qui i malumori della riga sopra) era, necessariamente, pochissimo: lo abbiamo messo in scena in una sala storica che poteva contenere soltanto trenta persone e, nonostante una doppia rappresentazione (venerdì e sabato scorsi), si tratta pur sempre di un “debuttino” di fronte ad un pubblico di colleghi e amici vari.

Chi mi conosce sa poi che la soddisfazione per uno spettacolo portato in scena dura all’incirca 6 – 10 ore dopo il risveglio del mattino successivo. Questo per rassicurarvi che quanto sto per scrivere non ha niente di autocelebrativo, di consolatorio o di autoindulgente e che non mi sogno nemmeno di rompervi  con le difficoltà incontrate: so che, statisticamente, molte delle vostre vite sono decisamente più complicate della mia.

Volevo scrivere invece di quanto è sempre ostico e bello collaborare con un’altra persona e di come questo genere di esperienze – per quanto non mi portino mai il becco di un quattrino – mi insegnino sempre qualcosa.

Lavorare con Francesco, dicevo, non è stato facile: i nostri caratteri si sono scontrati diverse volte procurando scintille, abrasioni o semplici irritazioni. Però è forse questo l’apprendimento più utile per me: uscire da un modo solo “mio” di vedere le cose e sforzarmi di entrare in (o almeno di avvicinarmi a) un’altra modalità.

Ho dovuto imparare a parlare di musica con lui, constatando che io, in questo campo, mi esprimo a gesti e grugniti e non è sempre facile farmi capire da chi la musica l’ha studiata davvero. Ho dovuto imparare che il ritmo o il tempo non sono cose che semplicemente “si sentono” o che “sono più o meno così” ma che si stabiliscono, si scrivono e si rispettano (“sì… vabbé – dicevo – ma tanto poi ci saltiamo fuori…”). Ho dovuto cercare un modo diverso di stare sul palco per interagire con lui. Ho dovuto a volte cercare una modalità di comunicazione che ci permettesse di collaborare al meglio, constatando che il mio carattere risulta spesso respingente (quando non ostile…).

Ho dovuto…

Ho dovuto.

Alla fine mi rendo conto che niente e nessuno – tantomeno Francesco – mi ha obbligato a fare nessuna di queste cose. Allora sarebbe meglio dire “ho voluto”.

Allora mi tocca constatare che ha ragione mia nonna a dire che mi cerco il freddo per il letto e forse, anzi, mi riconosco pienamente in questa immagine del cercatore di freddo.

Fare qualcosa di nuovo significa uscire dalla propria zona di calduccio, essere un po’ a disagio, per poi rendersi conto che riesci a cavartela anche in quella nuova situazione e che, forse, hai fatto un passettino avanti. Quando poi hai riscaldato una nuova porzione non puoi che essere grato a chi (come Francesco in questo caso, come tanti altri in tutti gli anni scorsi) ti ha accompagnato in quella nuova zona sconosciuta.

Forse alla fine, per me, questa cosa che gli altri chiamano Arte, è proprio questo continuo imparare delle cose, su di me e sugli altri, rendersi conto che ci sono migliaia di altri passi da fare in moltissime direzioni e moltissimi territori, probabilmente freddi, da esplorare.

Brrrrrrrr!

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Il chip

Praticamente ci sarebbe questa specie di consapevolezza che hanno i nuovi apparecchi elettrici ed elettronici. Si chiama “obsolescenza programmata” ed è quella roba per cui un telefonino smette di aggiornarsi e si lascia morire lentamente. La prima volta che mi è capitato io lo tenevo fra le mani e gli sussurravo “non lasciarmi” mentre lui mi faceva un lunghissimo discorso sui raggi beta che balenavano oltre i bastioni di Tannhaüser. Ricordo che pioveva e quel giorno imparai a non affezionarmi troppo agli apparecchi elettronici perché vivono poco, un po’ come i criceti per capirci.

Questa roba però ce l’hanno anche gli elettrodomestici, dalla lavastoviglie alla televisione. Qualcuno dice che c’è una specie di chip segreto che fa morire improvvisamente l’elettrodomestico, la stampante o, perché no?, l’automobile, perché altrimenti adesso la tecnologia sarebbe talmente avanzata da produrre macchinari eterni e dopo nessuno comprerebbe più niente. Questo microchip segretissimo invece entrerebbe in azione facendo morire il macchinario e costringendoti a comprane uno nuovo. Io il chip non l’ho mai visto ma secondo me ormai li fanno supersofisticati, del tipo che la stampante, per esempio, mi si pianta sempre quando devo stampare un documento importantissimo per il giorno dopo e, guarda caso, proprio quando mi arriva a casa il volantino del SuperMediaMarket che ha un’offerta speciale di stampanti. Un caso, dite? Io non credo.

(Io, a volte, cerco di ingannare il chip. Se la lavastoviglie si pianta io infilo dentro la testa – così se c’è il chip misterioso mi sente meglio – e dico a voce alta: “Ormai è ora di prenderne un’altra”. Di solito, quando dico così, la lavastoviglie riparte, forse perché il chip si convince di aver fatto il suo dovere e si è tranquillizzato. Anche con la mia macchina funziona e, prima di un viaggio in autostrada, le dico sempre: “probabilmente è il tuo ultimo viaggio”, mentre – senza farmi vedere dal chip – mi tocco i genitali.)

Comunque non era proprio di questa cosa che volevo parlare, anche se tutta questa storia dell’obsolescenza programmata come soluzione tecnologica del tardo capitalismo, mi ha reso, alla fine, molto più simpatici gli apparecchi elettronici e gli elettrodomestici. Alla fine, non c’è nessun apparecchio che sfida i secoli e che – come la lavatrice di mia nonna – si ostina a funzionare anche quando il suo padrone si è un po’ acciaccato: tutti i tuoi dispositivi sono dei precari e delicati compagni di alcuni mesi.

No, la cosa di cui volevo parlare è se non fosse il caso di mettere quel chip famoso anche negli esseri umani (pagando s’intende). Un piccolo segnale interno che ti dice: “guarda, non è cosa…” quando ti ostini ad andare a correre o a giocare a calcetto dopo anni d’inattività, un piccolo tintinnio di pericolo che ti dice: “ è da troppo che non scarico aggiornamenti o non faccio il backup. Sei sicuro di continuare?”. Forse a volte sarebbe salutare rendersi conto che non si è abbastanza aggiornati per competere in tutti i campi con chi ha venti anni di meno, che, al massimo, puoi essere robusto come la sferragliante lavatrice di tua nonna, ma non sei multifunzione, non sei smart e, molto probabilmente, non hai neanche il bluetooth.

Io ho questi dolori lombari quando vado a correre; ho male alle spalle se faccio esercizi per i lombari e mi sveglio con un dolore pulsante dietro l’occhio destro se il giorno prima ho fatto esercizi per le spalle. A queste cose aggiungerei il fatto che non riesco più a lavorare di notte come un tempo e che, anche questa roba che sto scrivendo, l’ho rimandata a questa mattina perché ieri sera mi sono addormentato sul divano.

“Vede – dice il mio medico – con tutti questi dolori il suo corpo le sta mandando dei segnali molto chiari che lei deve ascoltare…”

Segnali?! Cacchio, mi sono detto, vuoi vedere che, senza saperlo, ce l’avevo davvero il chip?!

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Je suis comme je suis

Questa settimana sono Anna.

Qualche problema d’identità, in effetti, ce l’ho. Prima ero stato Charlie, poi parigino, londinese e adesso Anna. Io cambio sempre, gli altri mai. Voglio dire, per quanto io possa cambiare, lo stupido rimane stupido con, in più, l’aggravante di essere uno stupido nell’epoca della riproducibilità tecnica.

Ogni “cagata” – scusate, ma ho cercato inutilmente un sinonimo – segue la curva sinusoidale dello scandalo crescente, giunge alla massima tensione dell’unanime condanna social per poi esaurire la sua parabola narrativa nella pancia concava del disinteresse eterno che accompagnerà l’argomento.

Lo stesso è capitato per questa cosa di Anna Frank in maglia giallorossa. Io, che sono molto limitato, non riesco ad inquadrare bene l’offesa: Anna Frank è offensivo? Ebreo è offensivo? Forse “romanista” può essere offensivo… L’unico che si sarebbe dovuto risentire per questa “cagata” (non goliardata, non ragazzata… niente di spiritoso ma atto ignorante e inutile compiuto da ignoranti) è il Ministero dell’Istruzione che spende – secondo le statistiche – tra i sette e gli ottomila euro annui per studente, evidentemente fallendo nel suo intento di dare ad ognuno un’adeguata consapevolezza intellettuale nonché storica.

Il problema della “cagata” mediatizzata è che questa stimola soluzioni mediatiche che non possono che essere sullo stesso livello: Anna Frank à la Andy Warhol declinata nelle varie maglie di squadre italiane, proposta di calciatori con la stella di David, gite ad Auschwitz – immagino il disappunto dei tifosi: “ma come? Non è in funzione?” -, libri (!) ai calciatori (!!), presidenti pagliacci che omaggiano la sinagoga di Roma.

Così, a freddo, non saprei dire davvero se la povera Anna è stata maggiormente vilipesa dal gesto idiota o dai goffissimi tentativi di riparazione.

Credo che il tono dominante di tutto sia – come ha giustamente messo in rilievo qui Alessandro Piperno – quello del grottesco. Il grottesco però è generato dal fatto che le nostre risposte, più o meno social, non sono mai sulla stessa lunghezza d’onda dei nostri “interlocutori”.

Ecco allora una serie di gesti riparatori più incisivi, che umilmente propongo all’attenzione delle autorità:

  1. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale riconosciuta dalle tifoserie sportive, ossia la Gazza dello Sport, di Che Guevara a tutta pagina in maglia laziale accompagnato dalla didascalia: “Laziale libberatore (sic) di boliviani”.
  2. La lettura negli stadi del Mein Kampf e dei discorsi di Mussolini ad opera di Nino Frassica, con opportune storpiature, per mettere in risalto la ridicolaggine di quelle pagine.
  3. La messa in cartellone al Sistina di Roma con obbligo di visione per la tifoseria del musical Yentl interpretato da Anna Falchi.
  4. Una copia omaggio dei Cantos di Ezra Pound (questa basta così…).
  5. Una distribuzione casuale di manganellate nelle varie curve italiane, mentre gli altoparlanti diffondono il mantra: “Quando c’era Lui sarebbe andata esattamente così”.

Dite che non sono rimedi seri o praticabili?

Forse allora basterebbe soltanto che la polizia facesse un giro per le curve e punisse chi saluta col braccio teso, chi intona cori razzisti, chi, insomma, commette il reato di apologia di fascismo o di nazismo. Forse basterebbe smettere di essere ciechi e sordi, di non essere tacitamente conniventi perché – se in una società laica ci ostiniamo a punire i bestemmiatori di varia natura – non possiamo tollerare che certi infami si nascondano dietro una presunta “libertà d’opinione” che era peraltro proibita sotto i regimi che loro rimpiangono.

Come dite?

Ah, sì… capisco. Alla fine non bisogna farla tanto lunga: è più comodo che cambi io per una settimana, piuttosto che intervenire seriamente per ripulire la cloaca di molte curve italiane.

Vabbè: questa settimana sono Anna. Per fortuna, è già venerdì.

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Steccati

Caspita, pare che il pueblo de Catalunya non voglia più restare unido al resto dell’España!

Una frattura che – qualora avvenisse – infliggerebbe un duro colpo alle mie già frammentate conoscenze geografiche.

D’altra parte, considerate che io mi sono maggiormente dedicato allo studio della geografia – come, immagino, molti dei miei lettori – soprattutto nel quinquennio elementare. Allora, con la spocchia tipica dei bambini di dieci anni, potevo dire di conoscere tutte le capitali europee e buona parte di quelle mondiali. Facile! Gli stati del mondo, allora, erano soltanto 150 ed erano già aumentati di un terzo rispetto ai 100 stati in cui era diviso il mondo nel 1945.

La mia maestra, allora, diceva ancora cose tipo “Congo Belga” e non aveva idea di cosa fosse il Suriname. Ci diceva però che eravamo in un mondo fondamentalmente diviso in due: stati che stavano con gli USA da una parte, stati che stavano con l’URSS dall’altra e poi, a fare un po’ da sfondo ché tanto non contava nulla, c’era il Terzo Mondo, che era praticamente tutto quello che non c’era nella cartina che avevamo in classe. Allora avevamo paura che il primo e il secondo mondo si bombardassero e speravamo che questa contrapposizione finisse.

Quando poi sono crollati il muro di Berlino e il mondo bipolare, si sono aggiunti altri 20 nuovi stati.

In seguito c’è stata l’Europa Unita, la moneta unica, il crollo delle frontiere, una serie di trattati mondiali di commercio ed alleanza fra Cina ed Europa, Sud-Est asiatico e Australia, Australia e Stati Uniti, Stati Uniti ed Europa… In tutto questo, in questo mondo molto più unito, siamo saliti a circa 206 stati (anche se, come qualcuno di voi ben saprà, lo status di Abcasia e Transnistria è ancora dibattuto).

Nella mia ingenuità geografica, io credevo che saremmo andati verso una situazione di ordine sempre maggiore: grandi federazioni e grandi alleanze fra stati, pace mondiale, fine delle contrapposizioni. Invece, nonostante una sempre più evidente globalizzazione, sono i vecchi stati di una volta a sbriciolarsi sempre di più. A mano a mano che si allargano gli orizzonti, amiamo rinchiuderci nei nostri giardini. Gli steccati sono i più diversi: lingua, cultura, economia e vengono innalzati sulla base del desiderio (di chi, poi? di quanti?) di preservare la nostra identità, in un mondo che rischia di annacquare i vari localismi nell’omologazione globale.

Insomma, in questo tempo in cui – alla faccia di Phileas Fogg – ci sono agenzie di viaggi che vendono pacchetti per il giro del mondo, ci sono anche migliaia di piccoli territori che rivendicano l’autonomia: tirolesi, abitanti del Quebec, dell’Ossezia del sud, della Scozia, desiderano la loro porzione di indipendenza nonostante tutti si siano comunque abituati a pranzare da McDonald’s.

Sembra, insomma, che la storia vada da una parte e la geografia dall’altra: per chi, come me, ha conoscenze che risalgono alla scuola elementare, questo crea un po’ di sgomento.

Ora, assisto come tutti alle legittime rivendicazioni del popolo di Catalogna e constato che – senza entrare nel merito delle proteste – all’interno dell’Europa si sta innalzando un ulteriore steccato per preservare un piccolo orticello. Il futuro delle nostre grandi unioni sovranazionali forse è quello di trasformarsi in supercondomini divisi in tantissimi appartamenti, i cui padroni si ritrovano una/due volte all’anno per litigare sul taglio della siepe o la pulizia del cortile.

Magari è solo un passaggio necessario. Forse gli stati di una volta si devono tutti sbriciolare per poi potersi unire su nuove basi.

Peccato però. Da bambino speravo che tutti gli steccati fra le nazioni sarebbero stati abbattuti e che, magari, tutti i popoli sarebbero stati tenuti insieme da qualcosa di più significativo di un panino Big Mac o un volo low-cost.

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Gli aperitivi

La gente fanno gli aperitivi.

Camerieri, vestiti da toreri – gilet strettissimo su pantaloni strettissimi, camicia bianca d’ordinanza – si muovono affannati fra tavoli strettissimi.

Quando finalmente arrivano al tuo tavolo, nemmeno ti guardano: le loro attenzioni sono già tutte prese dal tablet delle comande, sul quale hanno già cominciato a bi-blippare col pennino. “Prego!” intimano, oppure “Ditemi!”, saltano i preliminari inutili dei saluti: tanto tutti sanno che si è qui per l’aperitivo e quello si vuole. L’unica domanda è quanto, quando anche la tipologia dipende dalle stagioni o dalle settimane: “spritz!” uggiola il primo del tavolo che è uscito dalla falsa concentrazione che sottintende un retorico “uhmm vediamo cosa potrei bere stasera…”, oppure “hugo!” oppure “mojito!”, al quale segue immancabile solo il numerale quantitativo scandito dai compagni di tavolino: “due!”, “tre!” e via così fino ad esaurimento.

Raggiunta la quota dei seduti, il cameriere s’invola, preso da altro, svicolando fra gli strettissimi tavoli, riponendo il tablet, artigliando bicchieri vuoti, sibilando insulti a questo o quello che, reclinati sulla sedia, impediscono il suo percorso.

Ah! Gli aperitivi!

Quando arrivano, sono bicchieroni enormi, sovradimensionati rispetto all’esiguo contenuto liquido: due generose palettate di ghiaccio sbadilate dal barista, un goccetto di bitter, un po’ di prosecco e, infine, una significativa sifonata di selz gasatissimo, proveniente da un doccino sbucato da sotto il bancone. Lo sguardo si perde un po’, contemplando il grande balloon che contiene, come una palla di vetro, la danza dei cubetti e degli umori alcoolici.

Il bicchiere è poi il lasciapassare per il Grande Buffet sul quale, con simulata ritrosia (“Ah… ma si può anche prendere da mangiare?” il sottotesto delle varie espressioni noncalanti) ci si avventa velocemente: i piattini di plastica si stipano, si soppalcano, in una sorta di millefoglie che parte dalle pizzette, ai rotolini mozzarella e prosciutto cotto, verdurine, penne al sugo e riso freddo, e vengono riportati in equilibrio precario fino ai tavoli di partenza, in uno sbordare continuo dai lati dell’oberato piattino di pomodorini, brandelli di salume, schizzi di salsa, sui quali transiteranno altri clienti aperitivanti e, velocissimi, pattineranno i camerieri.

E’ luccicante e abbondante il mondo dell’aperitivo: fuggiti dall’ufficio o sopravvissuti al lavoro, ci si allenta la cravatta per la meritata ricompensa. Non è per questo che si lavora? Lo stress, si dice, l’aperitivo allenta lo stress. Ognuno, in fondo, butta giù il pesante boccone di una professione che non soddisfa in pieno e il rituale dell’aperitivo serale serve a digerire questa parte della vita. Si sgomita, in fila per il Buffet, come del resto si è fatto per tutta la giornata, ma qui almeno ci attende un enorme tagliere di salumi, pizze filanti ed altro bendiddìo sul quale buttarsi a babbo morto, in una specie di compensazione per tutto quello che il lavoro vero, invece, ci ha negato.

Qui forse, fra il tinnare dei bicchieri e le esplosioni di risate dai tavoli, tocca anche a noi poveri di spirito la nostra parte di ricchezza, ed è il tavolo del buffet.

A volte, ma solo a volte, sembra affacciarsi il pensiero che l’aperitivo dovrebbe essere solo un’introduzione, un piacevole preludio a qualcosa di più serio, chessò, una cena come si deve, un incontro davvero importante. Che tutto si esaurisca qui, in una premessa che già contiene la sua conclusione, in appetizer ingollati come soluzione definitiva, è la maledizione di chi non aspetta mai un seguito dalle cose belle, di chi si è abituato, nel tempo, ad ingozzarsi voracemente del momento presente.

Resta una specie di languore, come un bicchiere che si è vuotato troppo presto, e la constatazione che pure il ghiaccio che faceva volume, alla fine, era vuoto all’interno.

Tutto intorno, continua il carosello dei camerieri che raccolgono i soldi dai tavoli: l’obolo per l’ora d’aria, per la nostra felicità gonfia di ghiaccio e di selz.

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